#Incipit – Il randagio e altri racconti

Che cosa si nasconde all’interno de Il randagio e altri racconti?
Scopriamolo insieme con Abji Khanum, la storia che apre la raccolta, nella magnifica traduzione di Anna Vanzan.

Abji Khanum

 

Abji Khanum era la sorella maggiore di Mahrokh, ma chiunque le avesse viste insieme mai avrebbe pensato che fossero sorelle. Abji Khanum era alta, magra, scura di carnagione, con grandi labbra carnose e capelli neri, piuttosto bruttina. Al contrario, Mahrokh era piccolina, di incarnato chiaro, con un bel nasino, i capelli castani, bellissimi occhi e quando rideva le si formavano delle fossette agli angoli della bocca. Erano assai diverse anche di indole: fin da piccola Abji Khanum era puntigliosa e aggressiva e non andava d’accordo con la gente. Era stata perfino due o tre mesi senza neppure parlare a sua madre. Al contrario, sua sorella era socievole, affascinante, di buon carattere, sempre col sorriso. La loro vicina Naneh Hasan l’aveva soprannominata ‘la cocchina’. Anche i loro genitori preferivano Mahrokh, che era la piccolina e la più dolce. Abji Khanum le aveva buscate dalla madre fin dall’infanzia; non la sopportava, ma davanti agli altri, ai vicini di casa, mostrava di essere preoccupata per lei e, dandole una pacca sulla mano, si lamentava.

“Che ne farò di questa sfortunata? Chi si prenderà una ragazza così brutta? Ho paura che mi resterà sulla groppa per sempre! Una ragazza brutta senza arte né parte! Quale disgraziato se la prenderebbe?!”.

Avevano ripetuto questi discorsi davanti ad Abji Khanum così tante volte che lei stessa aveva perso le speranze e aveva abbandonato ogni idea di matrimonio. Trascorreva la maggior parte del tempo in preghiera e devozione. Aveva abbandonato ogni idea di matrimonio, anche perché non glielo procuravano un marito. Per la verità, una volta avevano provato a darla in sposa a Kalb Hosein, l’apprendista del falegname, ma quello però non l’aveva voluta. Ma dovunque andasse, Abji Khanum diceva:

“Mi avevano trovato marito ma io non l’ho voluto. Puah, i mariti oggi sono tutti degli ubriaconi e donnaioli, buoni solo per attaccarli al muro! Non mi sposerò mai”.

Questo era quello che dichiarava in pubblico, ma nel profondo del suo cuore Kalb Hosein le piaceva, e avrebbe voluto assai diventare sua moglie. Ma siccome sin da piccola si sentiva dire che era brutta e che nessuno l’avrebbe sposata, si era convinta che non avrebbe partecipato alle gioie di questo mondo, voleva almeno, tramite le preghiere e la devozione, conquistarsi quelle della vita nell’aldilà. E così aveva trovato consolazione. Insomma, perché dolersi di questo mondo se non poteva goderne i piaceri? Lei avrebbe avuto il mondo eterno e immutabile e tutti i belli, inclusa sua sorella, l’avrebbero invidiata.

Con l’arrivo dei mesi di Moharram e Safar, Abji Khanum si dava alle apparizioni pubbliche. Non c’era commemorazione dei martiri cui lei non partecipasse, e dalle undici del mattino in poi assisteva alle rappresentazioni sacre. Tutti i predicatori la conoscevano e tutti desideravano che Abji Khanum stesse ai piedi del pulpito in modo che la gente si infervorasse grazie ai pianti e ai lamenti della ragazza. Aveva imparato a memoria quasi tutte le storie dei martiri, e visto che aveva ascoltato così tante prediche ed era così addentro ai problemi religiosi, perfino i vicini venivano a chiederle un parere sui loro casi.

All’alba era lei a svegliare i familiari. Per prima cosa andava dalla sorella ancora a letto e le mollava un calcio.

“È quasi mezzogiorno, quand’è che ti alzi a pregare?”.

La poverina si tirava su e mezza addormentata compiva le abluzioni e poi si metteva a pregare.

La preghiera del mattino, il canto del gallo, la brezza mattutina, i bisbigli delle orazioni conferivano ad Abji Khanum una disposizione particolare, un atteggiamento spirituale che la rendeva orgogliosa. Diceva a se stessa:

“Se Dio non prende in paradiso me, chi altri mai prenderà?!”.

Dopo aver finito le incombenze di casa e criticato questo e quello, prendeva un rosario, i cui grani neri erano ingialliti dall’uso, e ricominciava con le orazioni. Adesso il suo desiderio più grande era di compiere il pellegrinaggio a Karbala e starsene un po’ là.

La sorella, invece, non aveva alcun interesse per l’aspetto spirituale della vita, e si dedicava ai lavori domestici. Compiuti i quindici anni, andò a servizio. Abji Khanum ne aveva ventidue, ma era rimasta a casa e in cuor suo invidiava la sorella. Nell’anno e mezzo trascorso da quando Mahrokh aveva lasciato la famiglia, mai una volta che Abji Khanum fosse andata a trovarla, o almeno avesse chiesto sue notizie. Quando Mahrokh veniva in visita, ogni due settimane, Abji Khanum si metteva a litigare con qualcuno, oppure si dava alla preghiera per varie ore. E quando finalmente si sedevano tutti assieme, attaccava la sorella e la indottrinava sulle preghiere, sul digiuno, sulle abluzioni rituali e su attività di dubbia natura.

“Da quando ci sono quelle fraschette, il pane è rincarato. Chi non si vela, finirà all’inferno appesa per i capelli. Chi dà scandalo, vedrà la testa crescere come una montagna mentre il collo si restringerà sottile come un capello. All’inferno ci sono tali serpenti da spingere la gente a cercare rifugio da un drago piuttosto…”.

Insomma, faceva questo tipo di discorsi. Mahrokh percepiva l’invidia della sorella, ma non lo dava a vedere.

 

Un pomeriggio, Mahrokh venne a casa, parlottò sottovoce con la madre per un po’ e quindi se ne andò via. Nel frattempo, Abji Khanum era seduta vicino alla porta della stanza di fronte a fumare la pipa ad acqua, ma la rabbia le impedì di chiedere alla madre l’oggetto della conversazione e quella si guardò bene dal rivelarglielo.

La sera, il padre rientrò col suo cappello da muratore impiastricciato di gesso; si cambiò d’abiti, prese la saccoccia del tabacco e la pipa e salì sul terrazzo.

Abji Khanum lasciò da parte quello che stava facendo, e insieme alla madre prese il samovar di bronzo, la pentola col cibo, la ciotola di rame, i sottaceti, la cipolla e si sedettero tutti sul tappeto. La madre annunciò che Abbas, un ragazzo a servizio nella stessa casa dove lavorava Mahrokh, voleva sposarla. Quella mattina, approfittando della calma, la madre di Abbas era venuta a chiedere la mano di Mahrokh. Volevano chiudere il contratto di nozze la settimana successiva: offrivano venticinque tuman come prezzo della sposa e trenta di dote, oltre a uno specchio, un tulipano, un Corano, un paio di scarpe, i confetti, una borsa di henna, una sciarpa di taffetà e delle stoffe tessute con fili dorati.

Il padre, facendosi fresco con un ventaglio di stoffa gialla, sorbiva il tè facendolo filtrare attraverso lo zuccherino che s’era messo in bocca e scuotendo la testa mugugnava in punta di lingua “molto bene, congratulazioni, non ci vedo niente da criticare!”.

Non si riusciva a capire se fosse sorpreso, contento, o se provasse altre emozioni, o avesse solo timore di sua moglie.

Abji Khanum era rimasta di sasso appena sentito l’annuncio e non era riuscita ad ascoltare il resto. Con la scusa delle preghiere, si alzò e scese nel salotto grande, si guardò nel suo specchietto e si vide vecchia e sciupata, come se fosse invecchiata di qualche anno negli ultimi minuti. Aveva la fronte rugosa e scoprì un capello bianco; lo strappò via con due dita e se ne stette per un po’ a fissare la lampada, senza sentire il dolore dello strappo.

Trascorsero alcuni giorni, la gente di casa era in fibrillazione, andavano e venivano dal bazar; comperarono due vestiti intessuti d’oro, caraffa e bicchieri, un tessuto ricamato, una bottiglia di acqua di rose, una brocca, una papalina da notte, un gran contenitore, un bollitore per l’indaco, un samovar di bronzo, una tenda colorata: insomma, di tutto. La madre eccitata raggruppò tutti gli oggetti messi da parte per la dote di Mahrokh, perfino il tappeto da preghiera di cashmere che Abji Khanum le aveva chiesto più volte, ma che non le aveva mai voluto regalare. Era tutto per la dote di Mahrokh.

Abji Khanum guardava i preparativi silenziosa e pensierosa. Per un paio di giorni finse di avere mal di testa e rimase a riposare, mentre sua madre la rimproverava.

“A che serve avere una sorella in queste circostanze? So che la invidi. Ma con l’invidia non si va da nessuna parte, e poi bellezza e bruttezza non dipendono da me, sono opera di Dio. Hai visto anche tu che volevo darti in moglie a Kalb Hosein, ma non gli sei piaciuta. E adesso fai finta di stare male per non combinare un accidente? Preghi dalla mattina alla sera cosicché io, poveretta, con questi occhi che vedono poco, sono costretta a cucire e rammendare!”.

Abji Khanum, con l’invidia che le traboccava dal cuore divorandola, rispondeva:

“Bene, bene, alla tua età è inutile indorare la pillola! Come quel po’ po’ di genero che avevi trovato, quel cane di Abbas. In città ne recuperi a pacchi. Perché mi tormenti, lo sanno tutti di che pasta è fatto. E adesso non farmi dire che Mahrokh è incinta di due mesi, mi sono accorta che ha il pancione e ho fatto finta di niente, ma non la considero più mia sorella…”.

La madre fece un balzo.

“Che Iddio ti faccia cadere la lingua, che il lava-morti si porti via il tuo cadavere e possa compiangerti da morta! Svergognata, vuoi disonorare tua sorella? So che lo fai per placare la tua rabbia, ma che tu possa morire perché nessuno ti prenderà con l’aspetto che hai. E adesso vuoi riversare il tuo dispiacere su tua sorella? Non sei stata tu a dire che nel Corano Dio ha scritto che i calunniatori sono peggio di chi mente? È una grazia divina che tu non sia bella, altrimenti, con tutte le volte che esci con la scusa dei sermoni, il mondo sparlerebbe di te! Vai, vai, tutte le tue preghiere e i tuoi digiuni meritano la maledizione di Satana! La tua è solo una messa in scena!”.

Questo era il tenore delle conversazioni in quei giorni. Mahrokh si limitava a osservare attonita senza dire nulla.

Finché giunse la sera delle nozze. Tutte le donne del vicinato s’erano riunite, le sopracciglia dipinte, le guance imbellettate e i capelli acconciati; indossavano veli con le monetine e sottogonne di cotone. Intanto Naneh Hasan s’era fatta spazio e civettando e girando la testa di qua e di là, suonava sul tamburello cantando il suo repertorio.

 

Amici, benedetto sia il vostro matrimonio! Siamo venuti, siamo tornati dalla casa dello sposo, tutte le donne sono belle come la luna, tutti gli uomini sono dei re, e tutti hanno gli occhi come mandorle… amici, sia benedetto il vostro matrimonio, a Dio piacendo, che sia fortunato! Siamo venuti, siamo tornati dalla casa della sposa, tutti sono ciechi, tutti sono zoppi e tutti hanno gli occhi umidi… amici, congratulazioni! Siamo venuti a prendere la houri e la fata, a Dio piacendo, che sia fortunato!

 

Mentre lei ripeteva la sua canzone, la gente andava e veniva, e sul bordo della vasca strofinava i vassoi con la cenere. Nell’aria si spandeva il profumo dello stufato; qualcuno cacciò via un gatto dalla cucina; uno voleva delle uova per giocarci; dei bambini s’erano presi per mano e a turno si sedevano e si alzavano cantando In bagno ci sono le formiche, alzatevi! Sedetevi!

I samovar di rame noleggiati per l’occasione bollivano. Annunciarono l’arrivo di Mahrokh con la madre e la sorella. Prepararono due tavoli con dolci e frutta e due sedie furono piazzate ai due capi.

Il padre di Mahrokh passeggiava pensieroso per le spese affrontate, ma la moglie insisteva che era necessario mettere su anche uno spettacolo di marionette. In mezzo a questo bailamme nessuno accennava ad Abji Khanum. Era uscita alle due di pomeriggio, nessuno sapeva dove fosse, per cui doveva essere ad assistere a qualche sermone!

Si accesero le luci a forma di tulipano, la cerimonia era finita e tutti se ne erano andati via, fatta eccezione per Naneh Hasan. Gli sposi si sedettero nel salotto grande, vicini, intrecciando le mani. Le porte della sala vennero chiuse.

In quel mentre rientrò Abji Khanum e si diresse verso la sala per togliersi il ciador: le tende erano tirate. Per curiosità, ne spostò un lembo: attraverso il vetro vide la sorella, truccata e agghindata, più bella che mai alla luce delle lampade, accanto a un giovane sui vent’anni. Erano seduti davanti al tavolo ricoperto di dolci. Come se si fosse accorto della cognata, lo sposo cinse la vita di Mahrokh sussurrandole qualcosa all’orecchio. Forse anche Mahrokh l’aveva vista, ma entrambi si misero a ridere, baciandosi, per farla scoppiare di rabbia. Dal cortile veniva il suono del tamburello di Naneh Hasan che cantava Amici, congratulazioni!

Abji Khanum fu pervasa da un misto di odio e di invidia. Tirò la tenda e si sedette sul suo letto che era stato preparato contro il muro, senza neppure spogliarsi del ciador nero. Pose le mani sotto il mento e fissò lo sguardo a terra, rapita dai fiori e dai ghirigori del tappeto; li contò, come se fossero una cosa nuova, guardando con attenzione l’armonia dei colori. La gente andava e veniva, ma lei non alzava neppure la testa per vedere di chi si trattasse.

Anche sua madre arrivò sulla soglia.

“Perché non ceni? Perché ti fai il sangue cattivo? Perché te ne stai seduta qui? Togliti quel ciador nero, perché porti iella! Vieni a baciare tua sorella, vieni a guardare da dietro il vetro, gli sposi sono belli come la luna piena. Mica sarai invidiosa? Vieni a dire qualcosa, tutti hanno chiesto dove fosse la sorella della sposa e io non sapevo cosa rispondere…”.

Abji Khanum si limitò ad alzare la testa. “Ho già cenato”.

*

Era mezzanotte, tutti dormivano sognando la propria notte di nozze, ed erano sogni piacevoli. D’improvviso, un rumore d’acqua, come se qualcuno si stesse agitando nella vasca, svegliò tutta la casa. Dapprima pensarono che ci fosse caduto un gatto o un bambino, a piedi nudi accesero le luci, guardarono dappertutto, ma non c’era niente fuori posto.

Quando fecero per tornarsene a letto, Naneh Hasan notò che le ciabatte di Abji Khanum stavano accanto allo sportello della riserva d’acqua. Avvicinarono le lampade, e videro il corpo di Abji Khanum che galleggiava nella vasca: i suoi capelli neri e intrecciati erano attorcigliati intorno al collo come un serpente, l’abito colorato le aderiva al corpo.

Il viso aveva un’espressione luminosa, come se si fosse recata in un luogo senza bruttezza né bellezza, dove non esistevano né il matrimonio né il lutto, dove non c’erano né il riso né il pianto, dove non abitavano né la felicità né il dolore. Era andata in paradiso!

 

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