«Abbiamo un romanzo faustiano, ma anche rocker, postmoderno e in maniera sofisticata anche antimoderno, abbiamo un inno barocco e per dissonanza un growl eretico, c’è la patina esoterica e allegorica, e tuttavia la epifanica volontà di trascendere i costrutti simbolici. Scardanelli in questo romanzo, che reputo un capolavoro, si pone come scrittore sfacciato, autoritario, insomma. Un padrone della penna. In questa storia sulfurea, i cui fumi della dannazione goethiana fanno lacrimare gli occhi dei lettori, Scardanelli scrive con una prosa personalissima dove incastona brani musicali e dissertazioni filosofiche messe in bocca a personaggi stralunati. Come si suol dire, sembra un romanzo che non ha subito un processo di editing, ma nudo e crudo appare sugli scaffali delle librerie così come è stato concepito dall’autore. Non è una mancanza dell’editore ma forse la costatazione che non si poteva operare cambiamenti nel romanzo. È evidente che il ritmo delle frasi, dei dialoghi pseudo-americaneggianti e al contempo sofismi d’alta scuola, e in generale la trama compositiva del testo sia un qualcosa di intoccabile, perché ogni parola è perfettamente bilanciata nell’arazzo-storia di Scardanelli, e ogni modifica ne altererebbe il risultato in maniera perpetua.»
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