Così Damiano de Tullio: “l’autrice tratteggia i personaggi e i loro percorsi evolutivi individuali con quella cura e quella profonda partecipazione empatica che ormai ne identificano la peculiare cifra stilistica. […] Non c’è ricerca di suspense: la scrittrice rifugge da ogni facile tentazione di utilizzare una vicenda dolorosa per riproporre collaudati cliché […]. Al centro del racconto c’è Mandy, giovane donna che riesce a non restare imprigionata nelle spire dolorose del proprio passato, la sua sensibilità, la sua conquista di una sempre maggior consapevolezza e la precoce, insensata, brutale interruzione di quel cammino. C’è una riflessione acuta e amara su classismo e misoginia, sulla violenza cieca che si abbatte sulle donne, spesso perpetrata da chi vive loro accanto, i cui segnali premonitori sono spesso sminuiti, quando non del tutto ignorati, sulla strutturazione delle personalità in ambienti familiari disfunzionali. C’è la voglia di spegnere i riflettori sulle speculazioni morbose che si sono rincorse per anni, alimentate dallo status sociale dell’omicida e dal contesto di nobiltà decaduta in cui il delitto era stato perpetrato, e riportare in primo piano la vera vittima, per ridarle, se non giustizia, almeno dignità.”
Così Jill Dawson: “Sono piuttosto stanca di una narrativa di genere che riduce il corpo di una donna uccisa a strumento meramente funzionale allo svolgimento della trama, oppure ad oggetto di feticismo, senza che di quella donna venga esplorata l’esistenza.”