IL TOCCO DEL PIANISTA: una conversazione a tre su “Est/ranei”

IL TOCCO DEL PIANISTA: UNA CONVERSAZIONE CON MIRT KOMEL E ALEXANDER GADJIEV

di Giorgia Maurovich

«Il romanzo di Komel è la storia di formazione  – e decostruzione  – di Gabriel Goldman, pianista geniale che seguiamo dalla nascita alla follia attraverso una fobia peculiare, quella del tocco. Per tutto il romanzo, la dimensione tattile è l’aspetto più privilegiato dell’esperienza musicale, e viene analizzata attraverso gli studi filosofici sul tocco, tema principale di ricerca di Komel. Grazie a Carbonio Editore, che ha pubblicato in italiano Il tocco del pianista nella traduzione di Patrizia Raveggi, ho avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con l’autore in quel di Gorizia. A fornire ulteriori spunti di conversazione c’è stato anche un ospite d’eccezione, il pianista Alexander Gadjiev, goriziano di nascita e berlinese d’adozione che ha vinto numerosi concorsi di piano in giro per il mondo, per ultimo quello della prestigiosa Sydney International Piano Competition, che oltre a dare un apporto musicologico alla chiacchierata ha parlato anche della sua esperienza.»

D.: Oltre alla frammentazione nella struttura del romanzo, c’è anche la frammentazione che intercorre nella società capitalista e iperconnessa di oggi, una frammentazione che muovendo dalla critica della cultura di Marcuse arriva fino a quella che Bauman definisce la liquidità del presente. Ed è una cosa che ti preoccupa molto, a quanto ho letto in altre interviste.

R.: Sì, cioè, quello che ho cercato di fare attraverso questo personaggio, del quale mi interessava proprio la questione centrale del tatto, era anche, diciamo, una riflessione un po’ più pretenziosa sulla critica alla società moderna, a come si mostra se la guardiamo dal punto di vista del tatto, e la cosa interessante è che dopo un anno o due dalla traduzione italiana inizia questa pandemia che mostra proprio quello che accade col tatto nella società moderna: da una parte sembra che sì, tutti piangono, non possiamo più incontrarci né abbracciarci, sembra come che con la pandemia abbiamo perso il tatto e la capacità di toccarci, ma in realtà il tatto l’abbiamo perso molto prima, e l’epidemia l’ha solo messo in risalto. In un certo senso la pandemia, dal punto di vista del tatto, era solo la prolungazione della logica dei social media, che contrariamente a quanto promuovono col loro nome non sono strumenti con i quali le persone stringono legami, anzi, attraverso l’accentramento su di sé si alienano le une dalle altre – la pandemia ha soltanto reso evidente un problema che era là già da prima. […] il tatto è automaticamente un segno di possessione, nel soggetto moderno ogni tocco è un gesto di possesso, che mostra come il nostro soggetto sia investito di ideologia consumistica. L’altra parte di questo soggetto è la produzione standardizzata, che ti promette oggetti unici e che soddisferanno proprio il tuo desiderio, ma che sono prodotti in serie, con standard ripetitivi e meccanici. Ed è là che il protagonista Gabriel vede che anche nella musica sta accadendo lo stesso, nella parte del romanzo che precede la caduta, perché capisce che nemmeno l’arte è immune a questo processo. È questo che lo sconvolge e lo porta a sviluppare la sua fobia.

Intervista dirimente e densissima da leggere integralmente cliccando qui

 

 

 

 

 

Condividi