Pauline Klein intervistata dalla rivista “Glicine”

C’è un momento nella vita in cui “si avverte il divario tra quanto si dà a vedere in pubblico e la propria intima natura, il personaggio sociale si scolla dal resto dell’identità”. Crede che anche per noi sia difficile riuscire a distinguere la nostra versione originale dalle altre centomila (per dirla con Pirandello) che proiettiamo nel mondo?

«Sì, certamente; credo che si tratti ormai di un automatismo, qualcosa che abbiamo integrato al nostro interno, e che a ben vedere è una prigione identitaria che non mettiamo nemmeno più in discussione, tanto siamo proni al mondo esterno, alle tecnologie e alla tirannia dell’immagine. Non sappiamo neanche più cosa significhi “essere noi stessi”, sebbene sia una delle imposizioni più utilizzate dalla pubblicità. Essere se stessi è diventato un luogo comune tanto banale come “l’aver bisogno d’aria” o “l’essere in una fase di transizione”. […] cerco di studiare il banale, ciò che significa essere umani nel senso più intimo e dettagliato possibile, cerco di scavare nei dettagli che ci rendono folli… e queste centomila voci di cui lei parla sono forme di follia che risiedono nel bisogno di normalità, un substrato stridente, estraneo, a cui ci rifiutiamo di avere accesso in nome dell’accettazione sociale. Mi interessa il fuoricampo, l’impubblicabile, ciò che è camuffato…»

Leggi l’intervista di Antonio Pagliuso cliccando qui

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